Report tavolo formazione

Report tavolo formazione

L’assemblea del mondo della formazione “ribellarsi alla cultura della guerra” ha visto collettivi e sindacati studenteschi di scuole e università, associazioni, comitati e sindacati di docenti e lavoratorǝ della scuola, movimenti antimilitaristi e transfemministi da tutto lo stivale e dalle isole esprimere la volontà di costruire un processo di mobilitazione contro l’escalation bellica nei contesti formativi. 

“Le guerre non scoppiano da un giorno all’altro, ma si preparano” questo è il presupposto da cui siamo partitǝ, sentendo la necessità di individuare le forme in cui i luoghi della formazione si prestano alla preparazione delle guerre e mettere in dialogo le affinità e le specificità dei territori e delle diverse persone che li attraversano, ricercando le possibilità di attivazione, gli spazi organizzativi di discussione e socializzazione necessari a ribellarsi alla cultura della guerra e sviluppare alternative formative, relazionali, sociali valide per tantǝ giovani, persone piccole, studentǝ, docenti, ricercatorǝ, genitorǝ. Tutto questo nella direzione di disertare, bloccare e scioperare dalla cultura della guerra, la ricerca bellica e le forme di arruolamento sempre più pervasive negli ambienti formativi.

 Senza pretesa di esaustività o sintesi, vediamo l’assemblea del 14 Luglio a San Piero a Grado come momento di un processo lungo e da costruire insieme a chi già lotta o sente il bisogno di iniziare a contrapporsi alla cultura della guerra e alle pratiche di reclutamento militarista di scuole, università, contesti giovanili, all’interno del processo in corso di costruzione verso una prima mobilitazione generale il 21 ottobre a Pisa e in Sicilia che possa porre le basi per bloccare l’escalation di guerra in ogni luogo e in ogni ambito delle nostre vite.

Come agisce la cultura della guerra?

A partire dalla discussione possiamo individuare alcune forme che assume la cultura della guerra negli ambienti formativi: le modalità di legittimazione ideologica e culturale della guerra; le forme di disciplinamento delle componenti studentesche e irregimentazione dei comportamenti; i meccanismi di arruolamento più o meno espliciti, sia rispetto agli ambiti esplicitamente militari, sia rispetto al lavoro di produzione industriale bellica e di ricerca scientifica per lo sviluppo di nuove tecnologie.

Prima di entrare nel merito dei nodi emersi, vogliamo riportare alcuni elementi trasversali e intrinseci del fenomeno della cultura della guerra.

In primo luogo, abbiamo riconosciuto la strutturalità di questo fenomeno, che si articola in forme ed esperienze differenti e si basa sulle dinamiche di manipolazione della conoscenza proprie di molta informazione e concezione del sapere: un esempio tra tutti è il fatto che la scienza venga narrata come un fatto neutro, quando, invece, è profondamente orientata politicamente e socialmente.

Un secondo elemento di trasversalità è la dimensione patriarcale interna alla formazione istituzionale: ricorrente nelle esperienze di moltǝ studentǝ è la violenza della trasmissione della conoscenza, che riproduce l’asimmetria e l’inquadramento nei ruoli di genere, a partire dalle scuole dei gradi inferiori, ed è connotata (nei contenuti e nella narrazione dei saperi) in modo molto maschile e individualizzante; questo aspetto lo vediamo molto anche sul piano della docenza e della ricerca universitaria, nell’asimmetria dei rapporti di genere tra professori e professoresse, ricercatori e ricercatrici etc. oltre che in modo “verticale” ai diversi gradi della carriera accademica.

Un terzo elemento fondamentale riguarda le condizioni materiali in cui versano i contesti formativi: il definanziamento, la privatizzazione di determinate funzioni, la precarietà e insufficienza delle assunzioni, il fenomeno delle “classi pollaio”, le conseguenze individualizzanti e nocive della salute mentale causate dalla DAD costituiscono una torsione neoliberista delle scuole e delle università che va di pari passo con lo svuotamento dei territori e la proposta di carriere militaricome elemento “compensativo” per il futuro lavorativo dellǝ studentǝ (la Sicilia è un esempio, non unico, di questo fenomeno). La formazione non costituisce più una forma di emancipazione sociale nella misura in cui vede il carovita, l’aumento degli affitti, il costo stesso degli studi, la precarietà lavorativa dellǝ docenti come rapporti di forza economici di base che rendono più fragili e ricattabili le persone e in cui si inquadra la cultura della guerra, costituendo un intreccio economico-culturale della militarizzazione della formazione. 

Legittimazione ideologica della cultura della guerra

Una delle forme che assume la cultura della guerra è quella della legittimazione ideologica: questo avviene con iniziative e narrazioni di propaganda nelle scuole che legittimano la militarizzazione e la cultura della difesa nei valori della patria, del sacrificio, dell’eroismo, della resilienza etc. Dalle scuole dell’infanzia alle università le forze armate si presentano quindi come soggetti educanti, proponendo iniziative di formazione (es. seminari su droghe, cyberbullismo e violenza di genere, gite nelle caserme o nelle basi militari, progetti di educazione civica tenuti da militari…) che divengono parte curricolare del piano formativo di ogni studentǝ, normalizzando la propria presenza ed il piano della guerra nella vita delle persone sin dai primi gradi di formazione. Questo aspetto si lega alle esigenze di arruolamento e disciplinamento che riporteremo in seguito, in quanto costituisce una formazione funzionale a preparare le persone a vivere in un mondo militarizzato e in guerra. 

La legittimazione di cui abbiamo parlato emerge anche nella forme di un occultamento della guerra negli ambiti umanistici della conoscenza: vediamo un significativo investimento in saperi connessi con la risoluzione dei conflitti, peacekeeping, conoscenza dei contesti geopolitici e delle relazioni internazionali, in cui spesso la valorizzazione nella carriera universitaria, motivata anche da interessi genuini, va di pari passo con la rimozione delle cause concrete dei conflitti in paesi non europei. Accanto a questo, sono diffusi in molti atenei accordi, anche in ambito civile e apparentemente innocuo, con il Ministero della Difesa Italiano e con Stati coloniali e autoritari come Israele. 

Disciplinamento, merito e repressione

Il disciplinamento di cui abbiamo discusso emerge nelle differenti forme di regolamentazione dei comportamenti, della condotta nelle scuole, nelle retoriche che orientano le modalità della formazione: dalla retorica di competizione, merito e umiliazione, spinta in maniera forte dal ministro Valditara e dal governo Meloni (in continuità con i precedenti), sino alla presenza militare esplicita nelle scuole. Un esempio viene dalle scuole di Torino, in cui è stato denunciato da studentǝ e docenti il ruolo delle forze dell’ordine nelle scuole per isolare chi si oppone, con la presenza di reparti di celere nei corridoi durante i colloqui per la condotta e con controlli antidroga particolarmente violenti e mirati, voluti da presidi e da alcunǝ docenti. 

Vediamo un fenomeno simile anche nella dimensione urbana, con la normalizzazione della presenza di forze armate negli spazi pubblici, la pervasività di immagini connesse allo scenario bellico e delle armi, dentro un quadro di una concezione violenta e repressiva di sicurezza.

Allo stesso modo, anche in altri ambiti non scolastici, come nei progetti di accoglienza per persone migranti o all’interno delle carceri, l’impianto formativo è sempre più appaltato a forze armate, polizia, prefettura, che ricoprono un ruolo di istruzione.

Arruolamento e formazione di nuovi eserciti

Infine, abbiamo individuato le forme più esplicite di reclutamento ideologico e materiale di studentǝ di ogni grado formativo a partire dal carattere sempre più istituzionale e curriculare della presenza di forze armate nelle scuole. Questo avviene anche grazie all’intesa tra ex MIUR, Ministero della Difesa e Ministero del Lavoro del 2017, che ha formalizzato tale presenza nel quadro dell’alternanza scuola lavoro e in cui il Ministero della Difesa ha acquistato importanza in ambito educativo (come nell’educazione ambientale e di genere). Gli obiettivi sono di fidelizzare fin dall’infanzia lǝ studentǝ e fornire proposte occupazionali connesse con il comparto militare: alcuni esempi sono i PCTO svolti nelle basi militari e la presenza di Esercito e Forze dell’Ordine negli orientamenti in uscita dalle scuole superiori, al Salone dello Studente e negli open day. Allo stesso tempo, come docenti, abbiamo denunciato l’arbitrarietà nella gestione dei PCTO, spesso delegati a singolǝ docenti che si ritrovano a stabilire quale progetto sia opportuno e quale no. Più in generale, è sempre più incalzante la compenetrazione tra settore pubblico militare e industria privata, per cui anche le guerre sono condotte su base fortemente “privatistica”.

Un altro caso di arruolamento esplicito dentro la logica della guerra e dell’esercito è il disegno di legge di La Russa, che prevede l’implementazione della “mini naja” per giovani studentǝ, a partire da un progetto già esistente ma non più finanziato. Questa leva “volontaria” dovrebbe essere aumentata a 40 giorni, fornire crediti per l’esame di maturità e per l’Università e punteggio per i concorsi pubblici; questa andrebbe ad aggiungersi alla già attiva ferma volontaria. Per quest’ultima la durata sarà aumentata a tre anni, l’età minima di partecipazione abbassata a 18 anni senza obbligo di diploma (incentivando l’abbandono scolastico) e lo stipendio sarà alzato. 

Di pari passo, vediamo una dinamica di arruolamento specifica nella filiera produttiva del complesso militare-industriale che investe soprattutto le Università: dai progetti di ricerca, a conferenze, seminari, presentazioni e interi corsi di studio, sono significativi i finanziamenti del comparto bellico sia in progetti militari che “dual use”. Questi finanziamenti vengono da soggetti disparati, da Leonardo a Frontex, dalla NATO al Ministero della Difesa e sono rivolti sia all’attività di studio e ricerca che di lavoro dopo la laurea. Il legame è molto forte in ambiti tecnoscientifici e ingegneristici ed è spesso connotato da scarsa trasparenza o forme di segreto, che rendono difficile svelarne il rapporto concreto con l’escalation bellica. Abbiamo evidenziato il legame stretto tra la dimensione di arruolamento in questa filiera produttiva e scientifica e la volontà sincera di apprendere e formarsi che caratterizza lǝ studentǝ che intraprendono il percorso universitario: è spesso difficile riconoscere e contestare i legami tra il comparto militare e i saperi appresi quando sono profondamente intrecciati (in termini di contenuto e di finanziamenti) con quello che viene scelto di studiare nella vita e che fornisce motivazione e interesse nello studio e nella ricerca.

Esigenze di cambiamento e alternativa

A partire dal racconto di esperienze e modalità di azione della cultura della guerra negli ambienti formativi, sono emerse nell’assemblea numerose e differenti esigenze di lotta, cambiamento e trasformazione della realtà che viviamo. La cornice generale di queste esigenze ha a che fare con il riconoscimento che la filiera militare è intrinseca e strategica nei modelli formativi scolastici e universitari, per cui una lotta che si opponga a questi modelli deve necessariamente essere capace di pensarne di nuovi e alternativi, coinvolgendo tutti i soggetti che ne fanno parte (da studentǝ a ricercatorǝ, da docenti a genitorǝ). Per realizzare ciò, abbiamo posto come necessaria l’acquisizione di consapevolezza di questi problemi e di una postura di non passività dentro queste dinamiche, di responsabilità, scelta e anche volontà di disobbedire e ribellarsi per essere incisivǝ.

Sul piano dell’alternativa, è importante il contributo della prospettiva transfemminista per ridefinire i concetti di sicurezza e autodifesa, ancora troppo relegati a posizioni militariste. Serve immaginare una sicurezza dal basso costruita mediante i legami sociali e il protagonismo delle persone oppresse, senza delegare alle autorità militari o di polizia. Negli ambiti giovanili è necessario rompere la difficoltà a parlare di guerra, affrontandola a partire da una lettura complessa delle oppressioni vissute, dei bisogni e dei desideri, oltre che alla formazione di una conoscenza critica del presente, cercando di individuare gli spazi in cui il sistema ha meno agibilità e potere. La cultura militarista agisce facendo leva sull’oppressione e la debolezza che le persone subiscono nella società e nei contesti formativi offrendo una prospettiva di forza e affermazione che segue schemi nazionalisti e patriarcali. Per scardinare questa dinamica serve costruire una prospettiva di lotta e coinvolgimento concreto che sappia modificare le condizioni e l’esperienza in cui si vivono i contesti formativi, basata su principi di cura, dialogo, condivisione e problematizzazione della realtàvalorizzando l’insofferenza diffusa verso le forme di disciplinamento violente che l’attuale sistema formativo impone. Per questo serve dare spazio e voce ai bisogni che la guerra amplifica e di cui si nutre: dal carovita al caro affitti, dalla violenza di genere alla salute psicologica, fino alla distribuzione della ricchezza e del welfare. Questo ha a che fare con la capacità di costruire maggiori possibilità di autodeterminazione e liberazione dalla dipendenza verso l’opzione della cultura della guerra e della carriera militare. Lo stesso tipo di approccio vale per le realtà del terzo settore, in cui è fondamentale immaginare e costruire processi alternativi al metodo disciplinante delle Forze dell’Ordine nei contesti di formazione migrante e in carcere.

Infine, è emersa l’esigenza di desecretare le informazioni legate alla filiera della ricerca militare: da un lato svelare la relazione tra comparto bellico e mondo accademico individuando gli obiettivi bellici dei progetti e gli interessi e le attività delle aziende coinvolte; dall’altro comunicare con chi porta avanti queste ricerche all’interno dell’università, senza delegare a singolǝ ricercatorǝ la responsabilità di rifiutare questi progetti, ma costruendo un sistema di alleanze che coinvolga e non faccia sentire sole le persone che lavorano in questi ambiti. 

Analizzando l’eterogeneità territoriale delle relazioni tra il comparto bellico e i differenti ambienti formativi, è necessario immaginare delle proposte politiche e di lotta altrettanto eterogenee ma sinergiche e comunicanti, che possano radicarsi sui territori nei differenti contesti.

Come fermiamo la cultura della guerra?

Alla luce degli elementi e delle esigenze emerse nell’assemblea, le persone e le realtà che hanno partecipato hanno proposto differenti modalità di conoscenza, azione e contestazione per contrapporsi alla cultura della guerra.

Un primo ordine di pratiche riguarda l’esigenza di desecratare e mettere a sistema le forme in cui agisce la militarizzazione nei luoghi della formazione, ricercando i bisogni concreti delle persone che vivono questi contesti:

  • laboratori di inchiesta (domande semplici e risposte) con lǝ studentǝ per interrogarsi su quanto siano presenti militarizzazione e cultura della guerra nel percorso formativo (es. gite in caserma, PCTO nelle basi…);
  • inchieste e autoinchieste negli atenei e nelle scuole sulla consapevolezza dellǝ studentǝ rispetto all’impiego nella filiera bellica delle proprie conoscenze e dei propri studi;
  • mappature popolari su qualità delle strutture scolastiche, numero dellǝ docenti in relazione al numero di studentǝ, condizioni economiche delle scuole e risorse disponibili etc. per conoscere le condizioni materiali in cui versano gli istituti formativi di un certo territorio;

In secondo luogo sono state condivise pratiche di confronto e informazione per cominciare a discutere di questi temi là dove ancora non è presente un dibattito, approfondire le forme che la cultura della guerra assume e costruire spazi di organizzazione:

  • Differenti tipi di assemblea: assemblee pubbliche, assemblee cittadine, assemblee di classe, d’istituto, di corso e d’ateneo a tema. Su questo tipo di discussione è stata sottolineata l’importanza di un sostegno reciproco tra studentǝ e docentǝ nella promozione di questi momenti;
  • Iniziative territoriali congiunte di informazione e dibattito in particolare in occasione dell’ inizio delle lezioni scolastiche e universitarie;
  • Promozione di dibattiti tra la componente ricercatrice. sia in sedi istituzionali e nelle lezioni sia in spazi costruiti appositamente;
  • Volantinaggi e striscionate;
  • Occupazioni tematiche per discutere di argomenti connessi alla guerra e le sue conseguenze;
  • Formazione di comitati dei genitori per tutelare studentǝ piccolǝ e per denunciare e opporsi alle forme di militarizzazione nelle scuole;

Un terzo strumento che abbiamo nominato è quello delle campagne sia informative che di contestazione che possano declinarsi sui territori anche in ragione delle singole specificità (controparti differenti, contesti sociali e formativi differenti, ecc.): un esempio importante che è uscito è quello di sviluppare campagne di informazione, contestazioni e occupazioni per desecretare la guerra, svelare le partnership con aziende e apparati bellici (es. Leonardo SpA, FRONTEX, NATO, Ministero della difesa…), nella direzione di stralciarle.

Infine, sono state individuate delle azioni da portare avanti su livelli differenti, per sostanziare le forme di lotta che immaginiamo possano scaturire dalle discussioni, informazioni e campagne che abbiamo finora riportato e che possano bloccare effettivamente delle situazioni di militarizzazione e cultura della guerra:

  • Vademecum per tutte le persone che attraversano i luoghi della formazione che dia informazioni su come fare azioni di diffida, mozioni nei collegi docenti, nei consigli d’istituto e nei senati accademici per bloccare i progetti militari;
  • Blocchi dei senati accademici e consigli d’istituto in cui accordi, partnership e progetti vengono discussi e presentati come percorsi formativi fondamentali (spesso perchè legati a finanziamenti sostanziosi per scuole e università);
  • Blocco delle lezioni dei docenti che hanno relazioni con aziende belliche, NATO e Ministero della Difesa e che promuovono la retorica e i progetti guerrafondai;
  • Occupazioni di scuole e università per risignificare gli spazi costruendo possibilità altre di formazione e relazione che possano costituire esperienze di ricchezza collettiva, cura, problematizzazione dei bisogni e ricerca di maniere comuni per soddisfarli;
  • Forme di contestazione diretta al governo e alle sue politiche e retoriche di disciplinamento, contestando, ad esempio, le passerelle dei Ministri in città, scuole e università;
  • Scioperi produttivi e riproduttivi di scuole e università di tutti i comparti e componenti: studentǝ, docentǝ, ricercatorǝ, lavoratorǝ di cura (es. personale ATA, pulizie, portierato ecc.);

Appuntamenti di mobilitazione

21 ottobre mobilitazione generale a Pisa e in Sicilia “Fermare l’escalation: unit contro guerra, armi e fossile”

4 novembre mobilitazione del mondo della formazione diffusa sui territori contro la cultura della guerra

Report tavolo “economia di guerra”

Report tavolo “economia di guerra”

L’Europa corre al riarmo, con il nuovo piano di finanziamento straordinario della produzione militare dei
singoli Paesi. Si chiama Act of support ammunition production e l’acronimo Asap è tutt’altro che un gioco
di parole: indica che la conversione industriale verso il settore militare e l’accelerazione dell’economia di
guerra costituisce una priorità strategica per il mondo euro-atlantico. Il duplice obiettivo europeo è da un
lato quello di intensificare le missioni militari ai confini, e dall’altro rifornire le scorte degli eserciti non solo
per mantenere continui gli aiuti militari in Ucraina, ma in prospettiva anche per farli crescere.


Il nuovo regolamento prevede, in particolare, lo stanziamento di ulteriori di 500 milioni di euro per le
spese militari comunitarie, che segue il rifinanziamento di 1 miliardo di euro dello strumento europeo per
la pace (European Peace Facility, EPF), destinato al sostegno militare all’Ucraina. Il fondo da 500 milioni
potrà finanziare fino al 60% la produzione dell’industria bellica: piogge di fondi europei alle aziende
private produttrici di armi, con una profondissima commistione di interessi tra la Commissione Europea e
le lobby militari.


Economia di guerra implica aumento dei tassi d’interesse, contrazione della capacità di spesa e del
potere di acquisto, smantellamento del welfare e delle misure di sostegno al reddito, aumento delle
spese militari. Anche il PNRR è piegato alle nuove esigenze del processo di escalation e sarà possibile –
se non immediatamente, forse domani – investire i fondi di ripresa e resilienza nel settore bellico. La
terza rata del PNRR (19 miliardi) continua a slittare dal mese di marzo, poiché per oltre il 25% dei
progetti non risultano avviate le gare d’appalto e l’assegnazione dei lavori; e anche la quarta (16 miliardi)
slitta indefinitamente. Le scadenze per l’erogazione dei finanziamenti vengono di volta in volta slittate, e
così il governo italiano ha chiesto altri quattro mesi per la riformulazione di un nuovo PNRR aggiornato. I
ritardi non sono elementi tecnici o burocratici, ma nascosti dietro dibattiti poco comprensibili alla
popolazione, si possono osservare alcune modifiche sostanziali del piano e le priorità del governo
Meloni. Nei documenti rivisti, il numero di posti negli asili nido inizialmente previsti si è ridotto, e anche
sulla costruzione delle colonnine elettriche e delle stazioni a idrogeno (previste con i fondi della terza
rata) il ritardo del Governo è sintomo di una scarso investimento sul tema della transizione ecologica.
Con lo scoppio della guerra, al PNRR originario era già stata aggiunta una voce significativa, relativa al
RePowerEU, il piano europeo per la cosiddetta “diversificazione energetica”, in cui le fonti di
approvvigionamento del gas russo sono sostituite da nuove importazioni di gas liquido da Stati Uniti, dal
nordafrica (Algeria ed Egitto in particolare), dal Mediterraneo Orientale (Israele, Qatar, ecc.). Si tratta di
un nuovo capitolo di spesa per i PNRR dei paesi europei, giustificato dallo scenario bellico globale, in cui
la costruzione di infrastrutture energetiche godrà di deroghe speciali, che svincolano i progetti dai vincoli
ambientali e climatici, e in cui fondi pubblici saranno investiti per la costruzione di gasdotti e
rigassificatori (come ben abbiamo visto in Italia).


Diventa fondamentale quindi capire come si articola l’economia di guerra e su chi ricadono i suoi costi, in
termini ambientali, sociali ed economici. Nella tavola rotonda “Desecretiamo l’economia di guerra” si
vogliono approfondire e discutere questi nodi, nell’ottica di una conoscenza condivisa e comune.
Son intervenut: Martina Pignatti (Rete Pace DIsarmo), a seguire dibattito libero con interventi di
singoli o di realtà.